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Guerre, lotte e disimpegno tra canzoni e canzonette (1a parte)

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«…tenteremo, assistiti dal Verbo che ci ispira dal cielo, di giovare alla lingua della gente illetterata…» queste parole sono tratte dalla prima canzone italiana. Risale al Trecento, s’intitola De vulgari eloquentia e l’ha scritta Dante Alighieri. A chiamarla “canzone”, infatti, è lo stesso Dante, che definisce il suo scritto «Un’opera compiuta di chi propone parole in armonia tra loro in vista di una modulazione musicale». Da allora la canzone diventa il genere musicale più caratteristico del nostro Paese attraverso il quale è possibile ripercorrere tutta la storia degli ultimi centocinquanta anni: le guerre e la dittatura, la ricostruzione e il boom economico, le lotte politiche e quelle giovanili, gli anni di Piombo e quelli dell’evasione. Una sorta di specchio che riflette i cambiamenti del costume e della nostra società.A partire dal Cinquecento, quando in Italia il termine canzone appare in opposizione al sonetto, i testi narravano situazioni rustiche e burlesche. Nel Seicento queste caratteristiche si sono evolute: le composizioni, più brevi, per far più presa sul popolo venivano cantate in dialetto e in poche decine di strofe si narravano, anche con passaggi satirici, battaglie cruente e amori, trovati o perduti. Così fino ai primi dell’Ottocento quando, accanto al repertorio romantico, cominciarono a scriversi i primi canti patriottici e politici che accompagnarono il periodo del Risorgimento; canzoni che, sul piano culturale e politico, contribuiranno alla crescita di una coscienza nazionale. Ad esempio Il Canto degli italiani, meglio noto come Fratelli d’Italia, composto da Goffredo Mameli e Michele Novaro nel 1847 dove si manifesta l’entusiasmo per le imprese patriottiche dei primi dell’Ottocento; o La bandiera tricolore, scritto da Luigi Mercantini dopo la decisione del re Carlo Alberto di assumere come bandiera del regno il tricolore delle Cinque giornate di Milano. Alla seconda guerra d’indipendenza è invece legata La bella Gigogin, pubblicata nel 1858 da Paolo Giorza, che musicò un mosaico di strofe di vecchi canti e canzoni popolari di varie parti d’Italia, dove tra le strofe si sprona il re Vittorio Emanuele II a «Daghela avanti un passo (fare un passo avanti)» nell’unificazione italiana. Ma la patria non è l’unico tema: in questo periodo Filippo Turati scrisse l’Inno dei lavoratori dove, in maniera diretta, si parla si sfruttamento «La risaia e la miniera/ci han fiaccati ad ogni stento/
come i bruti d’un armento/
siam sfruttati dai signor». Intanto nelle si tenevano piccoli concerti, cosiddetti da “salotto”, dove i cantanti interpretavano arie da opere e romanze. Le liriche di quest’ultime erano affidate a poeti e, in contrasto con le canzoni patriottiche o di protesta, erano tutte poesie d’amore con donne, belle e perfette, protagoniste, ma dove l’idea di bellezza era legata all’interiorità dell’animo più che al corpo, quest’ultimo rappresentato solo dalla compitezza dei gesti e delle movenze.

La prima guerra mondiale scatenò grande suggestione sulla fantasia degli autori, basti pensare alla Leggenda del Piave, scritta da Ermete Giovanni Gaeta con lo pseudonimo di E. A. Mario, che contribuì non poco a ridare morale alle truppe italiane, al punto che il generale Armando Diaz inviò un telegramma all’autore nel quale sosteneva che aveva giovato alla riscossa nazionale più di quanto avesse potuto fare lui stesso: «La vostra canzone al fronte è più di un generale». Nel Dopoguerra questo brano aiutò a dimenticare le atrocità del conflitto, le sofferenze e i lutti. Al contrario di canzoni come O Gorizia tu sei maledetta, tra i più famosi canti di protesta contro la guerra, scritta l’indomani della Battaglia di Gorizia (9 agosto 1916) che costò la vita a oltre cinquantamila soldati italiani. Dicono che, durante la guerra, chi la cantava poteva essere accusato di disfattismo e condannato: sotto accusa era la strofa «traditori signori ufficiali/che la guerra l’avete voluta/scannatori di carne venduta/e rovina della gioventù».

Negli anni Venti, grazie alla diffusione della radio e del grammofono, si cominciò ad ascoltare canzoni straniere e lo stesso cinema sonoro contribuì a favorire la conoscenza di nuovi stili musicali. Questo fino all’avvento del fascismo quando il duce, che condusse una politica di tipo nazionalistico anche in campo musicale, ostacolò il più possibile la diffusione delle canzoni straniere. Negli anni Trenta, con la crescita della cultura fascista, le canzoni dovevano trasmettere l’idea di un’Italia senza problemi, dove si viveva senza preoccupazioni, paure e incertezze per il futuro. I temi prevalenti, oltre all’amore, sono la campagna, la città di Roma e la guerra coloniale. Le canzoni coloniali irridevano sempre il popolo sottomesso e il suo sovrano, enfatizzavano la bellezza delle zone conquistate, inneggiavano al nazionalismo («Faccetta nera, sarai romana/la tua bandiera sarà sol quella italiana! ») e mostravano l’esercito italiano non come invasore ma come benemeriti soccorritori di «chi giammai conobbe libertà». Queste canzoni fecero subito presa sui giovani dei quartieri periferici delle grandi città o dei piccoli centri agricoli, perché in tutte le canzoni dell’epoca fascista è sempre presente un’esplicita contrapposizione tra la campagna e la città: la prima equivale all’alba, alla salute fisica, mentale e morale; la città alla lussuria, alla delusione, alla perdizione, alle insidie della notte. A incoraggiare gli autori verso tali argomenti è lo stesso il ministero della Cultura Popolare. Era noto, infatti, il sentimento di favore che Mussolini provava nei confronti del mondo agricolo, cui fa da contraltare l’avversione per la città, fonte di corruzione morale e di crescita culturale, potenzialmente pericolosa per il regime: «Se vuoi goder la vita, torna al tuo paesello/che è assai più bello della città» (Se vuoi goder la vita, 1940).

Due canzoni molto popolari, e apparentemente innocue, ebbero qualche problema con la censura fascista entrando nell’elenco di “canzoni della fronda”: Crapa pelada, scritta da Gorni Kramer (nella foto), e Maramao perché sei morto. Nella prima, a parte la ritmica in odore di jazz, genere messo all’indice dal regime perché «negroide e americaneggiante», la calvizie dello sbeffeggiato protagonista pareva proprio alludere alla “crapa pelata” di Benito Mussolini e la vicenda di spartizioni di tortelli e frittata era letta come una metafora della spartizione di territori coloniali da parte delle potenze europee, lasciando le briciole all’Italia. Il caso di Maramao perché sei morto, pubblicata poche settimane dopo la morte di Costanzo Ciano, livornese, presidente della Camera dei Fasci e padre del ministro degli esteri e genero di Mussolini Gian Galeazzo, scoppiò quando a Livorno si trovarono scritti i versi della canzone sulla base della lapide a lui dedicata. (1-continua)


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